Lui è Thorkil. Vive in Danimarca, è sposato e ha tre figli. Lavora in un grossa azienda di telecomunicazioni, è abituato ad avere il controllo della situazione, vuole che tutto vada secondo i suoi piani. È mattina, sta leggendo il giornale, intanto Lars, il figlio di tre anni gioca sul tappeto. Thorkil lo chiama. Il bambino non risponde, non lo guarda negli occhi, sembra immerso in un mondo tutto suo. Thorkil vuole vederci chiaro. Gira diversi ospedali, la risposta non lascia dubbi. Lars è autistico. Thorkil pensa alle prese in giro, al futuro incerto che lo aspetta. Per la prima volta si sente impotente. Passa qualche anno. È il 2004. Thorkil entra nella camera del figlio. Lars sta disegnando la mappa stradale dell’intera Danimarca, dice che la maestra l’ha mostrata in classe e lui l’ha memorizzata. È preciso, metodico, non sbaglia. Thorkil è incredulo. Si rende conto che non sa nulla dell’autismo. Legge, studia, scopre che molti giovani mollano la scuola perché non trovano appoggio, la percentuale di chi lavora è davvero bassa. Eppure Thorkil è sicuro che le loro capacità, se ben indirizzate, potrebbero essere un valore aggiunto per le aziende. Si guarda dentro. Non può guarire il suo bambino, anzi non vuole farlo. Desidera sostenerlo. Crede in lui per quello che è. Thorkil dà le dimissioni, e si dedica anima e corpo al suo progetto. Chiede sovvenzioni al governo. Gli ridono in faccia. Va in banca per un prestito. Lo rispediscono al mittente. Thorkil non si arrende. Mette un ipoteca sulla casa, investe i suoi risparmi e fonda un’azienda che si occupa di programmazione e consulenza informatica. Offre formazione e lavoro a persone con l’autismo. Ognuno fa quello che può, in base alle sue capacità. Molti dicono che è destinata al fallimento. Thorkil tira dritto. Oggi la sua impresa dà lavoro a più di milione di uomini e donne in tutto il mondo.
Scopre che il figlio è autistico, si licenzia e fonda un’azienda che dà lavoro a un milione di ragazzi come lui
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