Lui è Timothy. Lui è un bambino vivace. Ha una mamma schizofrenica. Lei riempie di ghiaccio la vasca da bagno, e lo infila dentro. Lui non sta mai fermo. Lei gli riempie la bocca di lassativi e lo mette a sedere. Lui è Timothy. Lui non ci sta. È più forte di tutto e di tutti. Studia, si laurea in ingegneria, trova lavoro in una multinazionale. Conosce Kimberly, si innamora, la sposa. Nascono cinque figli. Uno dietro l’altro. Uno più bello dell’altro. Il matrimonio finisce. Sono passati otto anni. Timothy e Kimberly si separano. Kimberly non ha un lavoro, non possiede un’automobile, non ha nemmeno la patente. I bambini vengono affidati al padre. Lui guadagna bene. Lui è un cervellone. Lui ama i suoi figli. Kimberly li vede tutti i sabato a pranzo. Nel frattempo trova un lavoro, prende la patente, compra un’auto. È il 28 agosto del 2014. È giovedì. Fa caldo. I bambini sono a casa con Timothy. Nathan ha 6 anni. Sta giocando. Rompe una presa elettrica. Lui si arrabbia. Gli mette le mani al collo. Stringe. Il bambino scalcia. Poi si accascia. Non si muove più. Merah è entrata. Ha otto anni. Ha visto. Lui la raggiunge. Lei dice no papà, ti prego papà, io ti amo papà. Tocca a Elias, 7 anni. Poi a Gabriel, 2 anni, e Abigail, 1 anno. Loro hanno il collo troppo piccolo per le sue mani. Usa una cintura. Timothy raccoglie i corpi da terra, li infila nei sacchi della spazzatura. Li carica in macchina. Vaga per nove giorni tra Carolina del Sud, Georgia, Alabama e Mississipi. Nel frattempo Kimberly ha dato l’allarme. Una pattuglia della polizia ferma Timothy. Dalla macchina esce odore di morte. Nel bagagliaio ci sono i vestiti dei bambini. Lui ha gli indumenti sporchi e lo sguardo spiritato. Timothy Ray Jones jr ha 37 anni. Inizia il processo. È in corso. Kimberly chiede che l’ex marito non venga condannato a morte. Lo ucciderebbe con le sue stesse mani, se potesse. Ma dice che i figli amavano il padre. E lei vuole onorare la loro memoria.
Lui è Timothy
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