Lui è Kevin. Vive in California, negli Stati Uniti. È un ufficiale di polizia, pattuglia il Golden Gate Bridge, il ponte di San Francisco. È il maggio del 2005. Kevin fa avanti e indietro, è una giornata tranquilla. Suona la radio di servizio. Attenzione, movimento sospetto sul ponte. Kevin dà gas alla moto, raggiunge il punto indicato. Un ragazzo fissa il vuoto, sembra ipnotizzato. Kevin si avvicina. Il tizio scavalca la ringhiera, fa per buttarsi. No! Kevin urla, corre, lo trova appoggiato su un tubo, a centinaia di metri d’altezza. Il cuore di Kevin batte all’impazzata. Fa un grande respiro, deve calmarsi, c’è ancora tempo. Come ti chiami? Il ragazzo non risponde. Kevin non forza la mano, si presenta, racconta qualcosa di sé. Ho un figlio, avrà più o meno la tua età. L’altro non alza la testa, non lo guarda. Muove le labbra. Anch’io sono padre. Kevin lo invita a continuare. Vai, ti ascolto. Il ragazzo appoggia la testa tra le inferriate. Incredibile. Anche lui si chiama Kevin, ha 22 anni. Ha una figlia, è nata prematura, motivo per il quale deve un sacco di soldi all’ospedale che l’ha curata. Ha perso il lavoro, deve pagare l’affitto, le bollette, non sa come fare, ha paura. Voglio morire. Il ragazzo si agita, sporge il corpo nel vuoto. Kevin mantiene la calma. Quanti anni ha tua figlia? Il ragazzo singhiozza. Tra poco compirà un anno. Kevin vede una spiraglio, ci si aggrappa. Sai, il primo compleanno di mio figlio è stato bellissimo, l’ho visto battere la manine, soffiare sulla candelina, è un’emozione unica, credimi. Finalmente il ragazzo solleva la testa. Kevin lo guarda negli occhi, vede paura, dolore, e tanto, tanto amore. Allunga la mano. Vieni, fidati di me. Il ragazzo esita, poi la afferra. Kevin lo trascina sul ponte, lo stringe forte, lo abbraccia, piange. Passano otto anni. Kevin è a casa, riceve una chiamata. Ciao, sono Kevin, quello del ponte, ora ho un lavoro e non mi perdo un solo compleanno di mia figlia. Avevo bisogno che qualcuno mi ascoltasse, e tu l’hai fatto. Grazie.
Lui è Kevin
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