Lei è Vanessa. Ha 36 anni. Vive a Fidenza, in provincia di Parma. È sposata, ha due figli. È il 29 febbraio. Vanessa cena dai genitori, passano una serata tranquilla. Il giorno dopo riceve una telefonata. Tuo papà ha la febbre. Vanessa si allarma, il padre è un volontario, guida l’ambulanza. Avvisano il medico di famiglia, lui consiglia di prendere l’antibiotico e aspettare. Passano i giorni. La febbre non scende. Vanessa lascia la spesa ai genitori, li saluta dalla finestra, ha un groppo in gola. È il 5 marzo. Chiama la madre. Tuo zio è morto, il virus lo ha ucciso nel giro di qualche ora. Vanessa è incredula. Il padre intanto peggiora, arrivano in soccorsi, gli fanno il tampone, lo ricoverano. È grave. Vanessa si maledice per aver aspettato tutto quel tempo. Passano 24 ore. Anche la madre finisce in ospedale, ha gli stessi sintomi. Vanessa teme di impazzire. È a casa, attaccata al telefono, può soltanto aspettare. È il 13 marzo. Notte fonda. Squilla il telefono. Il suo papà. Era risultato positivo. Non ce l’ha fatta. È morto. Dopo aver pianto lacrime amare, Vanessa affronta la prova più difficile della sua vita. Chiama in ospedale. Lo dice alla madre, al telefono. Ti voglio bene bambina mia, farò di tutto per tornare a casa. Vanessa ha paura. Trema. Chiude gli occhi qualche ora. Si sveglia. Guarda il telefono. Nessuna telefonata. La sua mamma è ancora viva. È il 15 marzo. Suona il telefono. Vanessa sobbalza, il cuore le batte all’impazzata. È Ilaria, una psicologa dell’azienda sanitaria. Vuole solo sapere come sta. Vanessa è incredula. Sì, tutto bene. La psicologa la fa parlare, sfogare. Il giorno dopo la richiama. Vanessa non la conosce, non sa che volto abbia, ma quelle telefonate la salvano dall’uragano che ha dentro, è come parlare a un’amica. La vita della mamma Lina è appesa a un filo, Vanessa prega ogni istante perché almeno lei si salvi. Se riuscirà a stringerla ancora tra le sue braccia, non la mollerà più.
Lei è Vanessa
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