Lei è Serena. Vive a Zagarolo, in provincia di Roma. Ha 44 anni. Lavora come infermiera in un pronto soccorso. La situazione di colpo precipita. Le notizie arrivano confuse e frammentate. Ci sono pazienti sospetti, poi risultati positivi. Lei è immunodepressa, si sente esposta. Le mascherine con il filtro sono finite, il personale sanitario è costretto a lavorare con quelle chirurgiche. È il 5 marzo del 2020. Serena non sta bene, si misura la febbre, è alta. Chiama il numero di emergenza. Spiega nel dettaglio i sintomi, nome, cognome, condizione e professione. L’operatore la liquida, sarà un’influenza stagionale. Riattacca. Passa qualche ora. Serena tossisce, respira male, la febbre non è calata. Chiama il 112. Arriva una ambulanza, la portano allo Spallanzani. Le fanno il tampone. È positiva. Finisce in isolamento. Primo pensiero. Pericolo scampato. Per gli altri. Non avesse insistito, fosse andata al lavoro, avrebbe contagiato pazienti, familiari, colleghi. La stanza è senza finestre. Serena pensa ai figli, al marito. Ha paura. Passano i giorni. Serena non migliora. Devono trasferirla. La infilano dentro un’ambulanza. È chiusa, blindata. Serena soffre di claustrofobia. Piange. La ricoverano nel centro sportivo dell’esercito, alla Cecchignola. Serena comunica con gli infermieri solo tramite telefono. Misura la febbre 3 volte al giorno. Loro le lasciano un tavolino fuori dalla porta. Serena infila mascherina, guanti, prende il cibo e le medicine. Disinfetta tutti gli oggetti che ha toccato e li restituisce. Qualcuno viene a riprenderli. Serena lo sente, non lo vede. Non può vedere nessuno. È sola. Chiama il marito. È in quarantena con due dei suoi figli. Hanno fatto i tamponi, sono in attesa dell’esito. Intanto sono finiti i beni di prima necessità, stanno aspettando qualcuno che consegni la spesa. Serena ha un terzo figlio, è ricoverato per una appendicite. Ha paura. Si sente sola, impotente. Il marito la tranquillizza. Non preoccuparti, andrà tutto bene.
Lei è Serena
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