Lei è Nadia. Nasce a Kocho, nel nord dell’Iraq, nel 1993. I genitori hanno una fattoria, fanno parte della comunità Yazida, una minoranza religiosa. Nadia cresce, vorrebbe fare l’insegnante o aprire un salone di bellezza, non ha ancora deciso. Nel frattempo studia e aiuta la madre e il padre nei campi. È il 3 agosto del 2014. Nadia ha 21 anni. Di colpo l’orizzonte viene invaso da spari, urla strazianti, caos. Sono i soldati dell’Isis. Fanno una strage. Nadia perde tutta la sua famiglia. Di colpo si ritrova sola, ricoperta di sangue, sotto shock. La prendono per i capelli, la sbattono su un camion e la portano a Mosul. Ci sono altre ragazze, piangono, guardano il vuoto. Nadia è terrorizzata. La prendono e la portano in un’altra stanza. Chiudono la porta a chiave. La sbattono a terra. La picchiano. La violentano, a turno. Più volte. Nadia li sente ridere. Chiude gli occhi. Non pensa a niente. La sua anima abbandona il suo corpo, lo lascia lì, per terra, in balìa di quelle bestie. Hanno finito, si sono svuotati. Nadia rimane a terra. Immobile, perduta. La vita degli altri va avanti. Lei e le altre cercano di farsi forza. A volte qualcuna sparisce, viene venduta. Sono schiave, sono pezzi di carne, sono niente. Nadia è terrorizzata. Non vuole morire. Non così. Resiste. Loro la violentano, ancora, e ancora, lei si ripete che c’è speranza. Sempre. Un uomo ha finito, si riveste, dimentica di chiudere la porta a chiave. Nadia coglie l’attimo. Apre la porta. Scappa. Raggiunge Baghdad, trova riparo in un campo profughi. È il 2015. Grazie a degli aiuti, arriva in Germania. Si butta a terra, prega, ringrazia. È salva. Può ricominciare. Ma non può dimenticare. Non può restare in silenzio. Racconta la sua storia ai giornali, si rivolge alle istituzioni, all’Onu. Parla del massacro. Del rapimento. Degli abusi. Delle donne. Molte nazioni decidono di aprire i confini ai profughi yazedi. È il 2018. Nadia Murad vince il premio Nobel per la pace.
Lei è Nadia
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