Lei è Monica. Ha 27 anni. Vive a Trapani, in Sicilia. È il 5 marzo del 2019. Il padre viene arrestato. Paolo Ruggirello, ex deputato Pd della Regione Sicilia, candidato al Senato ma non eletto. È accusato di associazione mafiosa, viene rinviato a giudizio e rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. È il 26 marzo del 2020. Monica riceve una telefonata. Come stai papà? L’uomo tossisce, ha la febbre, ma non c’è da preoccuparsi. Monica prova a fare altre domande, ma i 10 minuti a disposizione per la chiamata finiscono. Cade la linea. Passa un giorno. Stessa ora. Squilla il telefono. Monica salta i convenevoli. Papà come stai? Ha ancora la febbre, 38 e mezzo. Ti stanno curando, hai altri sintomi? Hai chiesto il tampone? Sì, si sta curando, gli danno la tachipirina, ma il tampone non glielo fanno. Finisce il tempo a disposizione. È il 28 marzo. Monica è di nuovo al telefono con il carcere. Stesse domande, stesse riposte. Il padre ha chiesto ancora una volta di fare il tampone, anche a sue spese, ma gli hanno detto di no. Cade la linea. Monica è preoccupata. È il 30 marzo. Squilla il telefono. Sente la voce del padre, qualcosa non va, lo incalza. Lui ammette che l’hanno messo in isolamento, in infermeria. Monica trattiene le lacrime. Papà. Cade la linea. Il giorno dopo la situazione è la stessa. Monica lo rassicura, deve stare tranquillo e resistere. È il primo aprile. Monica alza la cornetta. Il padre tossisce, ha ancora la febbre, non ha mangiato, ha la nausea, gli trema la voce. Amore mio, aiutami tu, che io qui dentro non posso fare nulla. Scadono i minuti. Monica è disperata. Smuove mari e monti, chiama l’associazione Antigone, gli amici, nessuno risponde. Gli avvocati chiedono la scarcerazione, ma viene rigettata. Non è necessario. Paolo Ruggirello verrà curato dentro la struttura, e non è detto che abbia il coronavirus. Monica urla. Come possono dirlo se non gli fanno il tampone? Niente, il padre resta lì. Intanto il processo fissato per l’8 aprile è stato rinviato a data da destinarsi.
Lei è Monica
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