Lei è Monia. È nata a Corropoli, in provincia di Teramo. Lei ha 45 anni. È una psicologa, lavora nel reparto psichiatrico di una casa di cura privata di Pescara. È l’11 gennaio del 2017. Fa freddo, nevica. Monia ha appena finito il turno della mattina. Si mette a tavola. Inizia a mangiare. Riceve una telefonata. Lascia il pranzo a metà. Si alza. Sale in macchina e corre verso Francavilla al mare, in provincia di Chieti. Qui ha una casa affittata a una coppia. Loro non pagano l’affitto da un paio di mesi. Monia ha contatti diretti solo con la donna. La quale, il giorno prima, ha detto basta. Ha mollato il compagno, ha fatto le valigie e se n’è andata. Lui è Giovanni Iacone, ha 49 anni, fa il cuoco, è originario di Firenze. Monia arriva a casa. Tra lei e Iacone scoppia una lite. Gli inquilini del piano di sopra sentono le urla strazianti di Monia. Lei è ferita. Lo supplica di non farle del male. Lo implora. Lui la colpisce 16 volte in faccia con un sasso ornamentale. Lei cade. Sbatte la testa contro un tavolo di vetro, che va in frantumi. I vicini sentono le urla, capiscono che sta succedendo qualcosa di grave, chiamano i carabinieri. Intanto Iacone la afferra per il collo, prova a strangolarla. Lei resiste. Lui prende una scheggia di vetro e le taglia la gola. Lei è esanime. Lui la afferra. La trascina in un sottoscala. La lascia lì, al buio. Lei è ancora viva. Agonizzante. Lui prova a scappare. I carabinieri sono appena arrivati, lo acchiappano, lo arrestano. Monia Di Domenico muore mezz’ora dopo. Giovanni Iacone viene imputato e processato. In primo grado viene condannato a 30 anni di carcere per omicidio volontario con l’aggravante della crudeltà. In appello i giudici hanno fatto cadere l’aggravante e gli hanno quasi dimezzato la pena. Nessuna crudeltà. Condanna a 17 anni. Lei è la mamma di Monia. Lei si chiama Doretta. Lui è il papà. È un ex poliziotto. Lui si chiama Aldino. Doretta e Aldino sentono di essere stati traditi dalla giustizia. Loro dicono che la figlia è stata ammazzata due volte.
Lei è Monia
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