Lei è Mariam. Lei ha 18 anni. È di Ostia. Lei ha un sogno. Studiare. Fare Ingegneria. La sua famiglia la sostiene. Lei si trasferisce in Inghilterra, a Nottingham. Studia, si fa degli amici, è felice. È il 20 febbraio del 2018. È sera. Lei è alla fermata dell’autobus. In centro. Loro sono in sei. Sono tutte ragazze. Si avvicinano. Le parlano. Sono sue coetanee, potrebbero essere sue amiche. Lei non le conosce. Loro la insultano. Lei risponde. Si difende. Loro non gradiscono. Si incazzano. Ora sono belve. Le sono addosso. La picchiano. Non le dicono il perché. Picchiano e basta. Lei è sola. La prendono a calci nello stomaco. A pugni in faccia. Nessuno interviene. Lei tenta di scappare. Sale su un autobus. Loro la seguono. Non la mollano. La acchiappano. Vogliono divertirsi. Due picchiano, le altre filmano. Avranno un bel video da postare sui social. Lei chiede aiuto. Loro ridono. Interviene l’autista. Loro se ne vanno. Miriam non si regge in piedi, ma è salva. L’incubo è finito. Lei si trascina a casa. Le fa male la testa. Va in ospedale. Racconta ogni cosa. I medici le trovano alcune macchie nel cervello. Ma non chiamano la polizia, e la dimettono dopo alcune ore. Non è nulla di grave. Lei torna a casa. Si mette a letto. Sta male. Sta troppo male. La portano in ospedale. Ha una emorragia. Entra in coma. I genitori pregano. Le ragazze vengono rintracciate e fermate. Alcune sono minorenni. Una si dichiara innocente, due colpevoli, tre prendono tempo. Lui è Athem. Lui è il papà di Mariam. Lui vuole sapere perché. Loro non rispondono. Vengono rimandate a casa. Sono libere. Mariam Moustafà muore dopo 22 giorni di agonia. Il padre è disperato. Invoca giustizia. Arrivano le prime sentenze: una ragazza è stata condannata a 8 mesi, una a 12 mesi, da passare in comunità. Per le altre si dovrà attendere. Il padre di Miriam è incredulo, arrabbiato. Per la Corte inglese sarebbe impossibile collegare la morte della figlia alle botte ricevute.
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