Lei è Khadija. Vive in Marocco. È il 1989. Ha 5 anni. La madre raduna lei e i suoi fratelli. Si parte, andiamo in Italia da papà. Arrivano a Foggia. Khadija è spaesata, ma i vicini di casa li accolgono con affetto. Il padre non trova lavoro, devono trasferirsi. Sono troppi. I fratelli più grandi si fermano in Puglia, li raggiungeranno dopo. Khadija e i due piccoli seguono i genitori a Bologna. Non hanno una casa, dormono in macchina. La notte fa freddo. Khadija si stringe alla sua mamma, si addormenta. Qualcuno bussa al finestrino. Khadija si sveglia di colpo. Sono i carabinieri. Li fanno scendere. I bambini non possono dormire in auto. La mamma le dice che devono dividersi, ma appena troveranno una casa verranno a riprenderli. Khadija e i fratelli finiscono in un convento. Hanno un letto, delle coperte, un cuscino. Non hanno la mamma e il papà. Khadija entra di nascosto nel bagno, sale sulle spalle della sorella, guarda fuori da una finestrella che dà sul parcheggio. La macchina dei genitori. Eccola. Le basta vederla per sentirsi sicura. Passa qualche tempo. Il padre trova una sistemazione. Khadija riabbraccia i genitori. Vivono in una casa occupata, senza luce, gas e riscaldamento, ma sono di nuovo tutti insieme. Scorrono i mesi. Il comune gli dà un alloggio. Il padre chiama i figli rimasti in Puglia, finalmente hanno una casa tutta loro. Khadija cresce, frequenta la scuola, si fa degli amici, una vita. È il 2020. Khadija lavora in uno studio dentistico. Scoppia l’emergenza Coronavirus, il suo studio resta aperto per chi ha bisogno. Khadija ha una figlia di 9 anni, ha paura, ma non si tira indietro. L’Italia l’ha cresciuta, le ha teso le mani e l’ha accolta. Le ha insegnato che si combatte e non si voltano mai le spalle a nessuno. Cara Italia, ho studiato e tu c’eri, sono diventata adulta e tu c’eri, mi sono sposata, ho avuto una figlia e tu c’eri. Sei sempre stata presente, fai parte di me, e mai ti lascerò, ora più che mai ti sono vicina, non ti abbandonerò, come tu non mi hai abbandonata.
Lei è Khadija
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