Lei è Giusy. Ha 41 anni. Lei è una insegnante di Lettere. Ha due figlie. Maria Sofia ha 9 anni, Gaia ne ha 7. Lei ama le sue figlie. È una mamma attenta. Le accompagna a scuola. Le cura. Le veste bene. Loro sono la sua gioia. Lui è Vincenzo. È un ingegnere edile. Lui è il marito. Il loro matrimonio non va molto bene. Litigano. Spesso davanti alle bambine. Lui minaccia di lasciarla, e di portare via le bambine. È il 27 dicembre del 2016. Lei è a casa con le figlie. Lui è al lavoro. Sono le otto e mezza del mattino. Lei sta preparando la colazione. Maria Sofia e Gaia dormono. Lei va svegliarle. Si china su Maria Sofia. La chiama. La figlia apre gli occhi. Lei dice buon mattino tesoro, e la accarezza. Le sue mani scivolano sul collo. Stringe. Maria Sofia non si muove più. Poi passa a Gaia. La strangola. Va in bagno, prende della candeggina e la ingerisce. Entra nella vasca. Prende il tubo della doccia e se lo lega attorno al collo. Stringe. In quel momento Vincenzo torna a casa. Trova le figlie. Prova a svegliarle, le chiama per nome. Loro non aprono gli occhi. Lui sente dei rumori, corre in bagno. Giusy è nella vasca. Si sta soffocando. Lui la blocca, chiama la polizia. Lei viene portata in ospedale. La interrogano. Lei scoppia a piangere. Urla, chiede ai medici di lasciarla morire. Dice che ha ucciso le sue bambine perché aveva paura che lui gliele portasse via. Dice che l’ha fatto per il loro bene, perché le ama. Lei viene accusata di omicidio volontario. Inizia il processo. Il giudice richiede una perizia psichiatrica. Giusy Savatta è malata. È stato un raptus. Viene assolta in primo grado e ricoverata in una clinica psichiatrica. Il marito fa ricorso. Si torna in tribunale. Siamo nel 2019. Nella sentenza di secondo grado lei viene ritenuta incapace di intendere e di volere. Soffre di delirio persecutorio con tratti di schizofrenia. Viene assolta definitivamente. Non è imputabile.
Lei è Giusy
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