Lei è Giorgia. Ha 35 anni, fa l’infermiera a Porto Viro, Rovigo. È mercoledì 24 aprile. Giorgia è al lavoro, sembra una mattina come tante. Arriva una telefonata, dicono che c’è un bambino abbandonato davanti al cimitero di Rosolina. Non respira, è morto. Giorgia salta dentro l’ambulanza, a fianco di Anna, la dottoressa, e Marco, che si mette al volante. Nessuna parola, c’è tensione e angoscia. Squilla un telefonino: il bambino piange, è vivo. Marco si trasforma in un pilota di Formula Uno. Sei minuti dopo, l’ambulanza è sul posto. Ci sono i carabinieri. Ci sono due vecchiette. Il bambino è dentro una sacca da tennis, sopra una copertina bianca. La dottoressa lo porta subito dentro l’ambulanza, misura i parametri vitali. Sono positivi. Il bambino è nato da mezz’ora. Ha le mani e i piedi gelati. Giorgia taglia il cordone ombelicale, lo avvolge nella copertina sterile. Marco alza al massimo il riscaldamento e riparte. Giorgia lo prede in braccio. Il bambino è vivo, ma non si muove, non piange, ha gli occhi chiusi. Lei lo adagia sul suo petto, lo avvolge con le braccia, lo copre anche con la sua maglietta, gli trasmette il calore del suo corpo. Marco aziona le sirene. Il bambino si desta, apre gli occhi, la guarda. Giorgia gli fa una carezza, lui le succhia il dito. Ha fame.
Lo hanno chiamato Giorgio, gli hanno dato il suo nome. Quando sarà grande, leggerà la lettera che lei gli ha scritto in quelle ore. “Presto avrai una mamma e un papà che ti vorranno bene. Quella mamma vorrei essere io, che non ho figli. Posso solo sperare di incontrarti di nuovo, in futuro. Sarebbe bello vedere come sei diventato. Ti auguro di essere felice. Di crescere sano, di conservare la forza che hai dimostrato di fronte a quel cimitero che dovrebbe servire a contenere i morti e che invece ci ha restituito una vita. Ma soprattutto, ti auguro di diventare un uomo con dei valori positivi, uno disposto a qualunque sacrificio per proteggere il proprio bambino”.
Lei è Giorgia
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