Lei è Giada. Vive a Milano. È il 2015. Ha la febbre. Tachipirina e antibiotico non fanno effetto, anche se per il medico si tratta di una banale influenza. Giada stringe i denti, ma sente che qualcosa non va. È il 4 novembre. Giada è debole, dimagrita, va in ospedale. Fanno analisi su analisi. Giada guarda i medici, sono preoccupati. Vorrebbe chiedere perché, ma non ha le forze. La mettono in una stanza sterile, chiunque entra deve indossare mascherina, guanti e calzari. La intubano. Dopo qualche giorno arriva l’esito degli esami. Signora, ci dispiace, lei ha l’Aids. Panico. Giada sente il gelo nel corpo. Il cuore comincia a battere forte. Non respira. Deve calmarsi, se no muore. Giada fissa il soffitto. Impreca, poi si scusa. L’infermiera le dice di piangere, urlare, è giustificata. Sa da chi può averlo contratto? Giada è single, scandaglia con la mente tutti i suoi ex. Si tormenta. Chi può essere stato? Resta in ospedale per un mese, pian piano si riprende. Giada torna a casa, ricomincia a lavorare, a vivere, ma è dura. Un pensiero la tormenta. Alza la cornetta. Chiama i suoi ex e li mette al corrente della situazione. È umiliante, ma sa che è la cosa giusta. Poi affronta l’uomo che pensa l’abbia contagiata. Dolore, rabbia, la mente di Giada è un caos. Si ripete che lui forse non lo sapeva, non l’ha fatto apposta e lei ha il dovere di avvisarlo. Lo chiama. Lui alza un muro. No. Sta benissimo, e non farà nessun esame. Giada insiste, deve farlo, per se stesso e per gli altri. Lui la manda a quel paese. Sparisce. Giada si rivolge ai carabinieri. Devono fare qualcosa, altre vite sono in pericolo. Gli agenti si scusano, non possono obbligarlo a fare il test. Giada è sconvolta. Davvero non si può fare niente? Passa un anno e mezzo. Giada riceve una chiamata. È lui. Si scusa, l’ha infettata, è stato uno stupido. Muore poco dopo. Giada piange. La rabbia sparisce, resta la tristezza. Ma anche la gioia. È vero, ogni giorno è una lotta, ma è viva. E va avanti.
Lei è Giada
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