Lei è Georgeta. Nasce in Romania. La famiglia è povera, la dà in adozione. Ha 9 mesi. Un uomo la adotta e la porta in Sicilia. Diventa il suo papà, le vuole bene, la coccola, la fa giocare. La madre invece la insulta, la prende a ceffoni, le lascia lividi su tutto il corpo. I parenti la chiamano zingara, la nonna le lava i capelli con la camomilla per schiarirli. Georgeta prova rabbia, tanta. Il padre è l’unica persona che le dà affetto, ma quando vede i lividi sulle braccia, si gira dall’altra parte. Georgeta ha 22 anni. Non ce la fa più, lascia tutto e tenta la carriera militare. Dura un anno, poi deve mollare, non può permettersi di pagare i corsi. Si rimette in viaggio. Si ferma a nord. Fa la cameriera, la postina, di tutto. Conosce un uomo, è gentile, le dice che la ama, vuole una famiglia, poi le sputa in faccia. Zingara, senza di me non sei nessuno. Passano 3 anni. Georgeta si guarda allo specchio. Beve, fuma, si taglia. È irriconoscibile. Basta, non permetterà più a nessuno di farla sentire una nullità. Lo lascia. Lui la riempie di botte, le ripulisce il conto. Tornerai da me strisciando. Georgeta sale sul treno, non si guarda indietro. Cambia città, trova lavoro, con i soldi da parte paga l’affitto. Non le resta nulla. Manca un mese allo stipendio, non sa come fare. Chiama a casa. Mi bastano 50 euro, vi ridarò tutto. La madre le ride in faccia, il padre è malato, la vorrebbe vicino. Georgeta è a un bivio, tornare indietro o stringere i denti. Sceglie la fame, i crampi. Passano 7 mesi. Georgeta conosce un ragazzo, lo invita a casa, gli prepara una cena con tutto quello che ha. Lui cerca da bere, apre il frigo, è vuoto. Georgeta si sente sprofondare. Non ho un soldo, per non sentire la fame mi addormento con la vodka. Lui non la deride. Il giorno dopo si presenta con la spesa. Adesso siamo in due. È il 2020. Georgeta ha 34 anni. Ha un compagno e un figlio. Le pesa come un macigno non essere stata vicino al padre malato, ma non si pente della sua scelta. Finalmente è felice. Libera.
Lei è Georgeta

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