È luglio. Chiara ha finito la maturità. È tempo di festeggiare. Stringe tra le mani i biglietti per il concerto di una band che adora. Ci andrà con la sua mamma, non vede l’ora. Assapora ogni momento. Il viaggio, la fila, l’attesa. Raggiunge l’ingresso, mostra il pass per l’area disabili. La volontaria la squadra dall’alto al basso. Tu non puoi stare qui, togli il posto a chi lo merita davvero, i veri disabili sono solo quelli in carrozzina.
Chiara è senza parole. La madre spiega la situazione, mostra i documenti, la 104. Davanti ha un muro. Chiara vede la sua mamma in lacrime. Sono anni che lotta per i suoi diritti, non sopporta di vederla così mortificata. Molla quella tizia e cerca altri addetti a cui spiega la situazione. Finalmente dopo mille giri, riesce a prendere il posto che le spetta di diritto. Ma quella donna si piazza vicino a lei, non le stacca gli occhi di dosso per tutta la sera, come fosse una che vuole fare la furba. Chiara prova a godersi il concerto, l’umiliazione resta.
Non cerca compassione, vuole che le persone riflettano. Prima di sparare giudizi e sentenze bisognerebbe provare a capire chi si ha di fronte. Perché anche una semplice parola può fare male.
Chiara si sente ogni giorno sbagliata, in colpa per la sua malattia. Spesso è additata come una raccomandata. Facile prendere un buon voto con l’insegnante di sostegno che ti fa i compiti. Deve lottare per dimostrare che i suoi traguardi li ha meritati, nessuno glieli ha regalati. Che quei diritti, come guardare un concerto dall’area disabili, non sono un privilegio, o un capriccio, ma un modo per creare uguaglianza, dare a tutti le stesse opportunità. Per rendere il mondo un posto basato sulla gentilezza, la comprensione, e l’empatia.